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Il romanzo dei suoi ricordi

Data: 

06/01/2017

Fonte: 

Granma Internacional

Autore: 

Gabo ed io ci trovavamo nella città di  Bogotá in quel triste giorno del 9 aprile del 1948, quando uccisero Gaitán. Avevamo la stessa età: 21 anni;  fummo testimoni degli stessi avvenimenti.
 
Tutti e due studiavamo la stessa materia: Diritto. Almeno era quello che credevamo tutti e due. Non sapevamo nulla l’uno dell’altro. Non ci conosceva nessuno e non ci conoscevamo tra di noi.
 
Quasi mezzo secolo dopo Gabo ed io chiacchieravamo in attesa di un viaggio a Birán, il luogo dell’Oriente  di Cuba dove io sono nato all’alba del 13 agosto del 1926. L’incontro aveva l’impronta delle occasione intime, familiari  di quelle che s’impongono tra i racconti e le evocazioni affettuose, in un ambiente condiviso con un gruppo di amici del Gabo e alcuni compagni dirigenti della Rivoluzione. Quella notte il nostro dialogo ripassava le immagini  incise nella memoria: hanno ucciso Gaitán! ripetevano le grida quel 9 aprile, a Bogotà, dove eravamo andati, un gruppo di giovani cubani, per organizzare un congresso latinoamericano di studenti. Mentre io restavo perplesso e immobile, il popolo trascinava l’assassino per le strade, una folla incendiava i negozi, gli uffici i cinema e gli edifici abitati.
 
Alcuni trascinavano da un lato all’altro caricando pianoforti e armadi
Altri se la prendevano contro i manifesti elettorali e le tende dei bar.
 
Altri più in là gridavano la loro frustrazione  e il loro dolore dagli angoli delle strade, dalle terrazze fiorite o dalle pareti fumanti.
 
 
Un uomo si sfogava dando colpi ad una macchina da scrivere e per risparmiargli lo sforzo enorme e insolito, io la lanciai in alto e andò a pezzi cadendo contro il pavimento di cemento.
 
Mentre parlavo Gabo ascoltava e probabilmente confermava quella sua certezza che in America Latina  e nei Caraibi gli scrittori hanno dovuto inventare davvero poco, perchè la realtà supera qualsiasi storia immaginata e forse il problema è stato rendere credibile la realtà.
 
Quasi concluso il racconto, seppi che Gabo era là, e percepii come rivelatrice quella coincidenza, forse avevamo percorso le stesse strade e vissuto gli stessi soprassalti, stupori e impeti che mi portarono ad essere uno dei tanti in quel fiume immediatamente straripato dalle colline.   
 
Sparai la domanda con la curiosità testarda di sempre: “E tu cosa facevi durante il Bogotazo?” E lui, imperturbabile, trincerato nella sua immaginazione sorprendente, vivace, discola ed eccezionale, mi rispose chiaro, sorridente e ingegnoso, dalla natura delle sue metafore: “Fidel, io ero quell’uomo della macchina da scrivere!”
 
Gabo lo conosco da sempre e la prima volta può essere stata una qualsiasi di quegli istanti o territori della frondosa geografia poetica “garciamarquiana”.
 
Come lui stesso ha confessato porta sulla coscienza l’avermi iniziato e mantenuto costantemente nella dipendenza dei best-sellers di consumo rapido, come metodo di purificazione contro i documenti ufficiali.  
 
A questo  si dovrebbe aggiungere la sua responsabilità di convincermi non solo che la mia prossima reincarnazione sarà come scrittore, ma che potrebbe essere come Gabriel García Márquez, con questo ostinato e insistente  uso del dettaglio su cui appoggia come una pietra filosofale  tutta la credibilità delle sue incredibili  esagerazioni.
 
In un’opportunità giunse a dichiarare che io avevo mangiato diciotto palle di gelato e io com’era da supporre protestai per quello con la maggio energia possibile.
 
Ricordai dopo nel testo preliminare di “Dell’amore e altri demoni”, che un uomo passeggiava sul suo cavallo di undici mesi  e suggerii all’autore: “Guarda Gabo, mettigli  due o tre anni di più a questo cavallo, perchè uno di undici mesi è un puledro!”
 
Poi  leggendo il romanzo stampato, uno ricorda  Abrenuncio Sa Pereira Cao, che Gabo riconosce come il medico più  notevole e discusso della città di Cartagena de Indias, nel tempo della narrazione.
 
Nel romanzo l’uomo piange seduto su una pietra della strada, vicino al suo cavallo che nell’ottobre avrebbe compiuto cento anni e in una discesa gli era scoppiato il cuore.
 
Gabo come si poteva pensare, aveva trasformato l’età dell’animale in una circostanza prodigiosa, in un fatto incredibile d’indiscutibile verità.
 
La sua letteratura è la prova assoluta della sua sensibilità e adesione irrinunciabile alle origini, della sua ispirazione latinoamericana e della sua lealtà alla verità del suo pensiero progressista.
 
Condivido con lui una teoria scandalosa, probabilmente sacrilega per le accademie e i  dottori in lettere, sulla relatività delle parole della lingua, e lo faccio con la stessa  intensità con cui sento il fascino per i dizionari, soprattutto quello che mi ha regalato quando ho compiuto 70 anni, ed è un vero gioiello, perchè alla definizione delle parole aggiunge alcune frasi celebri della letteratura ispanoamericana ed esempi di buon uso del vocabolario. Inoltre, come uomo pubblico obbligato a scrivere discorsi e a narrare fatti, coincido con l’illustre scrittore nel divertimento delle ricerca della parola esatta, una sorta di ossessione condivisa e instancabile, sino a che la frase non piace davvero, fedeli al sentimento e all’idea che desideriamo esprimere e nella fede che si può sempre migliorarsi.
 
Lo ammiro soprattutto  quando, non esistendo questa parola esatta, tranquillamente la inventa. Come gli invidio questa licenza!
 
Adesso appare Gabo come Gabo, con la pubblicazione della sua autobiografia, ossia il romanzo dei suoi ricordi, un’opera che immagino di nostalgia per il tuono delle quattro del pomeriggio,  che era l’istante del fulmine e la magia, quando sua madre Luisa Santiaga Márquez Iguarán ricordava con nostalgia, da lontano, Aracataca, il villaggio con le strade sterrate, degli acquazzoni eterni, con abitudini d’alchimia e telegrafo, amori turbolenti e sensazionali che avrebbero popolato “Macondo”, il piccolo paese della pagine dei cento anni solitari, con tutta la polvere e la magia di Aracataca.
 
Da Gabo mi sono sempre arrivate pagine in preparazione per il gesto generoso e semplice con cui sempre mi inviava, come ad altri che apprezzava molto, le brutte copie dei suoi libri, come prova della nostra vecchia e profonda amicizia.
 
Stavolta ha fatto il regalo di se stesso, con sincerità, candore e veemenza che lo rivelano come quello che è: un uomo con la bontà di un bambino e un talento cosmico, un uomo di domani che ringraziamo per aver vissuto questa vita per raccontarla.